Le rinnovabili sono una grande ricchezza del Mezzogiorno. Nonostante le difficoltà e le incertezze legate all’emergenza pandemica, le fonti alternative di energia risultano una fonte di innegabile di ottimismo sulla strada verso un futuro migliore, più equo e sostenibile.
In questo ambito, Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia sono le prime Regioni a sostenere, anche con provvedimenti normativi ad hoc, produzione e consumo collettivo. C’è un Sud che non vuole più restare fermo al palo e vuole togliersi la nomea di zavorra del paese.
«I numeri dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena) mostrano che nel 2020 le rinnovabili hanno superato tutte le possibili aspettative. La capacità mondiale di generazione di energia da fonti green è infatti aumentata a 2.799 gigawatt (+10,3%), con un incremento di ben 261 gigawatt di nuova capacità rinnovabile così ripartito: 127 gigawatt di energia solare, 111 gigawatt di eolico, 20 gigawatt di idroelettrico, 2 gigawatt di bioenergia e 0,16 gigawatt di geotermia».
La filiera dell’energia elettrica italiana, dalla produzione alla manifattura, conta 30 miliardi di euro di valore aggiunto e produce 177 miliardi di fatturato, grazie a 23.500 imprese attive per circa 215mila addetti. La riserva energetica italiana è concentrata quasi tutta nel Mezzogiorno, con la Basilicata che da sola pesa per l’84% della produzione a terra di “Oil & Gas”.
Il Sud produce il 50% circa del totale dell’elettricità da fonti rinnovabili, intese come eolico, solare, bioenergie e geotermica. In questo contesto prevale l’importanza strategica dei porti, come gate di accesso energetico. Nei porti italiani, infatti, vengono gestiti 184 milioni di tonnellate di rinfuse liquide, e il Mezzogiorno concentra il 45 per cento del traffico energetico del nostro Paese.
La transizione energetica rappresenta attualmente il grande tesoro del Mezzogiorno, il fattore che renderà le aziende del Sud più all’avanguardia e competitive di quelle del Nord Italia dove invece si registra una vera e propria sconfitta di grandi imprese industriali, che non sono riuscite a saltare sul treno della “economia della conoscenza”.